Con l’attesa sentenza n. 3182 del 2 febbraio 2022, le sezioni unite della Cassazione hanno risolto un contrasto interpretativo relativo ai diritti del contribuente in sede di accesso, stabilendo che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ai fini dell’apertura di pieghi sigillati, borse, mobili e simili, è necessaria solo allorché si debba procedura ad apertura “coattiva”, situazione che non ricorre quando vi è il consenso del contribuente. La formazione di tale consenso, affermano inoltre le sezioni unite, non è influenza da un’eventuale mancata informativa sui diritti del contribuente.
Il legislatore tributario, dovendo contemperare l’esigenza dell’amministrazione finanziaria, riconducibile all’articolo 53 della Costituzione, di esercitare proficuamente i poteri ispettivi, con quella del contribuente (e di eventuali terzi coinvolti) di evitare che un potere di indagine incontrollato si traduca in un pregiudizio per le libertà costituzionali, ha previsto un articolato sistema di garanzie in tema di accesso, quale il potere di entrare e permanere nei locali del contribuente anche contro la volontà di costui al fine di procedere a ispezioni, verificazioni e ricerche.
A tal proposito, l’articolo 52 del Dpr n. 633/1972, richiamato, per le imposte dirette, dall’articolo n. 33 del Dpr n. 600/1973, prevede un sistema autorizzatorio di intensità progressivamente crescente.
In particolare:
– per l’accesso nei locali destinati ad attività commerciale (ai quali la recente pronuncia n. 36474/2021 della Cassazione ha equiparato l’autovettura assegnata in uso promiscuo a un dipendente ma presente nel parcheggio dello stabilimento), e per quelli utilizzati da enti non commerciali e Onlus, è sufficiente che gli impiegati siano muniti di apposita autorizzazione del capo dell’ufficio da cui dipendono:
– per l’accesso a locali adibiti anche ad abitazione (locali a uso promiscuo, ai quali sono equiparati quelli comunicanti – cfr Cassazione n. 21411/2020 – in una fattispecie di mansarda adibita a ufficio) è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, con la precisazione che è necessaria la presenza del titolare o di un suo delegato, qualora si tratti di locali destinati all’esercizio di arti e professioni;
– l’accesso ai locali diversi da quelli indicati, cioè alle abitazioni del contribuente o di terzi, presuppone l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica e l’esistenza (sinteticamente motivata) di gravi indizi di violazioni fiscali, di cui tramite l’accesso si intende reperire la prova.
Il terzo comma, sul quale si incentra la decisione delle sezioni unite, richiede in ogni caso l’autorizzazione del Procuratore della repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina per procedere “durante l’accesso”, cioè ad accesso già avvenuto, “a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili” (nel caso all’esame della Cassazione, una valigetta messa a disposizione dall’amministratore) e per l’esame di documenti in relazione ai quali è eccepito il segreto professionale (fatto comunque salvo, per gli avvocati, il disposto dell’articolo 103 cpp).
La giurisprudenza è ampiamente consolidata (cfr, per tutte, Cassazione sezioni unite n. 8587/2016) nel ritenere che l’autorizzazione costituisca un atto endoprocedimentale, impugnabile davanti al giudice tributario non autonomamente, bensì congiuntamente all’atto conclusivo del procedimento (cioè, l’avviso di accertamento). Tale sistema di tutela differita non determina vuoti di tutela, poiché è riconosciuta la possibilità di contestare l’atto istruttorio (o la sua mancanza) dinanzi al giudice ordinario, qualora la verifica non si sia conclusa con un atto impositivo, o tale atto non sia stato impugnato, o ancora quando i dati acquisiti illegittimamente non siano stati utilizzati.
Come osservano le sezioni unite nella pronuncia in commento, l’articolato sistema sin qui descritto è posto a tutela non tanto della segretezza della corrispondenza (articolo 15 Costituzione), come del resto si può evincere dal fatto che il legislatore si sia disinteressato del contenuto (ad esempio) della borsa, quanto della libertà personale (articolo 13) e del domicilio, a seconda che la borsa (volendo rimanere nell’esempio delle sezioni unite) sia indossata dall’individuo o presente nei locali. Del resto, proseguono, è proprio la riserva di legge relativa agli accertamenti e alle ispezioni a fini (tra gli altri) fiscali, di cui all’articolo 14, comma 3, della Costituzione, a confermare che il tema delle autorizzazioni attiene all’inviolabilità del domicilio.
Il punto centrale affrontato dalla sentenza delle sezioni unite è la rilevanza del consenso ai fini del regime autorizzatorio; si tratta, cioè, di chiarire se sia o no legittimo l’operato dei verificatori che acquisiscano il contenuto della borsa consegnata volontariamente, e non coattivamente, in assenza dell’autorizzazione del Pm. Altra questione è quella relativa agli effetti di un’eventuale mancanza dell’informativa al contribuente circa la facoltà, prevista dall’articolo 12, comma 2, della legge n. 212/2000, di farsi assistere da un professionista.
Secondo un primo orientamento, la mancanza di autorizzazione del Pm non può essere sanata né dal consenso del detentore della borsa, né dalla mancata manifestazione del dissenso, trattandosi di comportamenti non presi in considerazione dalla norma di legge e, anzi, dovendosi accordare preminenza al principio costituzionale di inviolabilità del domicilio.
Un altro gruppo di decisioni, invece, valorizza il comportamento del contribuente e fa leva sull’espressione “apertura coattiva”, per evidenziare che l’autorizzazione del Pm non è richiesta, qualora il contribuente sia “collaborativo” o non sollevi contestazioni al momento della chiusura delle operazioni di verifica.
Le sezioni unite ritengono che debba trovare conferma il primo orientamento, in quanto il consenso libero è idoneo a soddisfare le ragioni che il legislatore ha inteso tutelare nel richiedere l’autorizzazione. Non deve essere trascurata, infatti, in un’ottica di interpretazione letterale, la presenza del termine “coattivo”, il quale implica che l’azione dell’autorità procedente trovi resistenza da parte del soggetto nei confronti del quale l’azione si rivolge. Il consenso, il cui accertamento costituisce un giudizio di merito, può essere manifestato in qualsiasi forma e, in particolare, potrà ritenersi mancante non soltanto nelle ipotesi di costrizione “materiale”, ma anche qualora vi sia minaccia o una coazione implicita o – mutuando un’espressione della dottrina penalistica in tema di concussione e corruzione – “ambientale”.
In sintesi, quindi, il consenso all’apertura di borse, mobili e simili, non indotto da comportamenti intimidatori o vessatori, ma libero e consapevole, non “sana” la mancanza di autorizzazione, ma determina il venir meno della necessità stessa. Tale opzione interpretativa della “coattività”, afferma la Corte, si pone in piena sintonia con la tutela del domicilio e con la disponibilità del diritto alla segretezza.
Il secondo quesito posto dall’ordinanza interlocutoria è se possa dirsi liberamente formato il consenso del contribuente qualora sia mancata l’informativa prevista dall’articolo 12, comma 2, dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000), il quale prevede che “quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche”.
Secondo la prospettiva dell’ordinanza interlocutoria, l’obbligo informativo non può essere eluso, perché costituisce il necessario bilanciamento tra i due contrapposti valori costituzionali che vengono in rilievo, ovvero l’interesse fiscale ad acquisire la documentazione e quello alla tutela del domicilio.
Le sezioni unite osservano, di contro, che il contenuto precettivo dell’articolo 52, comma 3, del Dpr n. 633/1972 è “in sé compiuto”: l’articolo 52 non prende in considerazione il requisito del previo assolvimento dell’obbligo di informazione, né può essere riconosciuta una relazione causale tra l’informazione e la validità del consenso all’apertura (o, al contrario, tra l’omessa informazione e l’invalidità del consenso). Portata alle sue estreme conseguenze, la tesi dell’ordinanza interlocutoria porterebbe a ritenere invalida anche un’attività di apprensione regolarmente “autorizzata”, qualora sia mancata l’informativa preliminare.
Per la diversità dei valori in gioco, non è nemmeno possibile richiamare in via analogica l’elaborazione intervenuta in tema di consenso ai trattamenti sanitari, o le discipline in tema di protezione internazionale, consumatori e dati personali.
Tuttavia, in un passaggio della motivazione, si riconosce che la mancata informazione potrebbe essere presa in esame, quale mero indizio, nel giudizio complessivo circa la verifica della libertà del consenso.
Applicando i principi sin qui esaminati le sezioni unite della Cassazione, trattando congiuntamente i tre motivi di ricorso relativi alle modalità di acquisizione della documentazione, hanno confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittima l’apprensione di una valigetta liberamente consegnata dal legale rappresentante della società, e ha rimesso la causa alla quinta sezione per l’esame dei restanti motivi del ricorso.
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